All’incontro di quattro strade, due in salita e due in discesa, la pittorica piazzetta di Pignolo presenta caratteristiche ambientali di particolare interesse. Ne definiscono la varietà degli aspetti le pareti delle case che la formano, elevatesi su una planimetria irregolare - case borghesi ottocentesche a negozi - la nobile fronte cinquecentesca del Palazzo dei Conti Lupi già Morandi e, all’angolo di via Pignolo con via S. Tomaso, la tipica nota casetta col piano superiore sporgente a sbalzo richiamante analogie nordiche di piccoli edifici quali la Glöcklein di Norimberga prossima alla casa natale di Dürer o le casette antiche di Rouen o di Malines, o talune modeste costruzioni della vecchia Bologna o del quartiere veneziano di S. Lio. Quest’angolo di città, ammirato da artisti italiani e stranieri, apparve anche, quattro decenni or sono, nello scenario predisposto dal geniale pittore russo Leon Bakst per uno dei balletti di Diaghilew che dominarono in quel tempo i teatri d’Europa. Nel centro della piazzetta è la fontana che il popolo definì da tempi lontani “fontana del delfino”. La forma è nota: una stele centrale in marmo di Zandobbio a pianta quadrata con raccordi curvi angolari regge la figura di un tritone dalle due code di pesce seduto su un delfino, pure a lunga coda, che getta acqua dalla bocca sporgente dalla stele. Il gruppo scultoreo è contornato da un bacino d’acqua chiuso da un parapetto a pianta ovale appoggiato su un gradino, recinto perifericamente da paracarri pure marmorei. Sui fianchi della stele due mascheroni di divinità marine con capigliatura a foglie d’acqua lanciano due alti getti nel bacino. Sul frontone invece una targa racchiude, scolpita in rilievo, una grossa pigna simbolo dell’antica contrada di Pignolo, che nel medioevo era denominata Mugazone, quando, prima dell’erezione delle mura venete nel secolo XVI, l’area del colle che da via Pelabrocco e dal Cornasello saliva alla via Osmano e abbracciava il dosso di Sant'Agostino, doveva essere boschivo ed ammantato di conifere. L’opera è di considerevole eleganza di proporzioni e di nobile fattura plastica: la movenza del tritone sul delfino, nella difficile commistione di tre code, è resa dai vari punti di veduta con la sicura abilità di ottimo artista cinquecentesco, il cui nome però è a noi totalmente ignoto. Si conosce la data dell’opera: 1526, sorta perciò in quel quarto di secolo di fioritura d’arte architettonica e decorativa in cui in quella plaga della città si innalzano i bei palazzi Martinengo ora Bonomi, Grataroli ora De Beni, Casotti-Mazzoleni ora Bassi-Rathgeb, Tasso ora Lanfranchi, Morandi Lupi ora Comando militare. E forse la fontana fu il dono di una di quelle insigni famiglie patrizie.
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