Situata nell'area dell'ex convento di San Francesco, la Biblioteca è a pianta basilicale a tre navate, suddivisa da due file di 10 colonne ciascuna. Fondata da Malatesta Novello, Signore di Cesena nel 1452, conserva 340 manoscritti dei secoli IX-XV, in latino, greco ed ebraico. La Malatestiana è l'unico esempio al mondo di Biblioteca umanistica perfettamente conservata nell'edificio, negli arredi e nella dotazione libraria, come ha riconosciuto l'Unesco nel 2005, inserendola nel Registro della Memoria del Mondo.
Intorno alla metà degli anni ’40 del sec. XV i locali frati Francescani, disponendo di un numero di volumi ormai superiore alla capacità della loro piccola biblioteca, chiesero al Signore di Cesena Malatesta Novello i fondi per l’edificazione di una nuova libraria. I lavori, sotto la direzione dell’architetto Matteo Nuti da Fano (discepolo di Leon Battista Alberti, elaborò in maniera originale il famoso modello che Michelozzo aveva fornito per la Biblioteca di San Marco a Firenze) ebbero inizio nel 1447 e già nel 1452 l’Aula poteva dirsi conclusa; occorsero, poi, due anni per la sistemazione dei codici e la realizzazione del portale in noce, e il 15 agosto 1454 il nuovo studium veniva aperto al pubblico. Prima biblioteca civica d’Italia, di proprietà cioè dell’Amministrazione Comunale nonché visitabile da tutti i cittadini, fu affidata in custodia ai Francescani; questa doppia responsabilità sulla Biblioteca, sancita dalla presenza di una doppia chiave per accedervi, è ritenuta dagli studiosi uno degli aspetti che ha portato la Malatestiana al suo primato maggiore: quello di essere l’unica al mondo, di tipo umanistico-conventuale, ad aver mantenuto intatte struttura, arredo e codici fin dalla sua apertura, e perciò per più di cinquecento anni. Morto Novello e terminata la Signoria, la Biblioteca poté vivere grazie alla lungimiranza del suo mecenate e solo durante il periodo napoleonico (1797-1814) corse seriamente il rischio di essere smembrata.
La Biblioteca Malatestiana va assaporata a poco a poco, approssimandosi ad essa con la certezza di stare per assistere ad uno spettacolo unico. Ma difficile è condurvi una visita con rigore “classico”, ammirandone cioè prima la struttura esterna e solo poi l’interno. L’esterno, infatti, è purtroppo sacrificato tra gli edifici ottocenteschi che sostituirono le sale del Convento, e solo dal Chiostro di San Francesco oppure dal cortile di Palazzo Ghini se ne possono godere rispettivamente il lato nord e il fronte, il tutto di una disarmante semplicità: in cotto, con fronte ornato da rosone e lapide dedicatoria, e lati maggiori con finestrelle archiacute e delizioso cornicione in terracotta.
Salite le scale che conducono al primo piano (il piano terra fu scartato per eventuali pericoli di inondazioni) e attraversati due corridoi, si accede al vestibolo che immette all’Aula del Nuti e che la divide con l’adiacente Biblioteca Piana, con la splendida mazza da parata che papa Pio VI donò alla sua città natale. Siamo di fronte alla Biblioteca Malatestiana, pronti ad entrare in un ambiente che il tempo e l’uomo non hanno saputo intaccare.
Si accede all’aula dallo splendido portale in pietra, con incisione dedicatoria e doppio stemma ai lati (steccato e teste), eseguito dal fiorentino Agostino di Duccio; allo stesso si deve il timpano in pietra con simbolo prediletto da Malatesta Novello, l’elefante indiano (ripetuto nel riquadro soprastante), animale magnanimo e dalla lunga memoria legato alla leggenda che voleva Scipione l'Africano progenitore dei Signori. Il celebre cartiglio con la scritta “ELEPHAS INDVS CVLICES NON TIMET” pare avere valore di motteggio verso i nemici Da Polenta (signori di Ravenna, zona a quel tempo infestata da zanzare). A destra è una lapide celebrativa del Nuti (datata 1452). La mirabile porta in noce è del 1454, intagliata da Cristoforo da San Giovanni in Persiceto, con stemmi dei Malatesta (rosa selvatica, tre teste, bande a scacchiera e steccato) alternati a motivi decorativi.
Varcata la soglia d’ingresso, l’interno si presenta in tutta la sua rigorosità geometrica, tipica del nostro più puro Rinascimento. L’aula è a pianta basilicale (“tempio della cultura”), divisa in tre navate da dieci file di colonne di pietra locale bianca, con capitelli recanti gli stemmi dei Signori; le campate sono perciò undici per lato (a causa dell’affondamento di una nave con volumi, non fu realizzata la dodicesima), con volte a crociera impostate su semicolonne in laterizio alle pareti. La navata centrale è invece voltata a botte e termina con un rosone sotto il quale riposano i resti di Novello; il suo nome e l’iscrizione dedicatoria (“MAL(atesta) NOV(ellus) PAN(dvlphi) FIL(ivs) MAL(atestae) NEP(os) DEDIT”) ricorrono, infine, lungo tutta la navata centrale.
L’arredo è composto da 29x2=58 plutei, con stemmi ai lati. La luce è assicurata esclusivamente da due finestrelle “veneziane” per campata (44 in totale), perfettamente studiate per la lettura tanto che si suol dire che alcuna luce sia mai stata accesa in questo studium. I colori presenti sono quelli dell’arme malatestiana: il verde, riposante per la lettura, dell’intonaco; il rosso dei banchi e del pavimento, il bianco delle colonne.
Un discorso a parte meritano i codici malatestiani (presenti qui in numero di 340), assicurati ai plutei da catenelle in ferro battuto realizzate a mano per un doppio scopo: da un lato preservarli dal furto, dall’altro di mantenerne invariata la posizione nel tempo (sancita da un codice alfanumerico, con D o S, un numero romano e uno arabo: ad esempio il Liber de marescalciae di Lorenzo Rusio (S.XXVI.2) è situato nei banchi di sinistra, alla fila XXVI, al secondo posto). Per i codici della Malatestiana si può parlare di un ultimo bagliore di un mondo in via di dissoluzione: l’uso esclusivo del latino - divenuto con l’umanesimo lingua anche letteraria - e del codice manoscritto saranno, infatti, destinati di lì a poco a una rivoluzione che sancisce, con il passaggio al volgare e alla stampa con caratteri mobili, il passaggio alla modernità.
Alla stesura di un codice, che richiedeva anche mesi di lavoro e che si realizzava presso lo sciptorium del Signore (presso il Palazzo), concorrevano vari artigiani e artisti: di alcuni non ci è giunto il nome (si pensi a chi realizzava la copertura, in legno ricoperto da cuoio oppure solo in cuoio, borchiata; o a chi trasformava la pelle di capretto in pergamena). Di altri, possiamo parlare di nomi propri: gli amanuensi, intanto, che copiavano il testo lasciando lo spazio per l’intervento del miniatore; a Cesena operarono in principal modo, utilizzando la “littera antiqua”, autori cosiddetti “umanistici” (tra cui Giovanni da Epinal – il più prolifico, Jacopo della Pergola e Francesco da Figline, già primo bibliotecario), mentre pochi codici furono copiati in “littera moderna” (dagli autori cosiddetti “gotici”, tra cui Tommaso da Utrecht e Mathias Kuhler). Si è già accennato al miniatore, colui che, servendosi di colori ottenuti naturalmente dai chimici e dagli erboristi, decorava il frontespizio e alcuni capilettera. In particolare, la Malatestiana presenta alcuni testi con miniature di gran pregio (di scuola ferrarese, bolognese, lombarda) e forse addirittura il ferrarese Taddeo Crivelli, uno dei maestri insuperati, fu attivo per Novello, miniando le copie del De Civitate Dei e del In Evangelium Johannis di Sant'Agostino.
Detto che la lingua con cui sono redatti gran parte dei codici è, come ovvio, il latino (con alcune eccezioni per il greco, una per l’ebraico e per il volgare), si accenna ora agli argomenti dei 340 manoscritti, suddividendoli in tre fondi principali. Si inizia con il fondo “conventuale”, comprendente i circa 50 testi in possesso dei Francescani anteriormente a Novello, con argomenti di carattere religioso che spaziano dalla filosofia alla teologia, all’esegesi biblica; fa parte di questo fondo il manoscritto più antico della Malatestiana: un Etimologie di Sant'Isidoro (S.XXI.5) del IX sec. Si passa poi ai codici del fondo “malatestiano”, di cui più di 120 prodotti nello sciptorium di Novello e gli altri frutto di donazioni e acquisti; gli argomenti vanno dai classici greci e latini (con predominanza degli storici, come Cesare, Tito Livio, Erodoto, Plutarco, Plinio il Vecchio, Polibio) ai padri della Chiesa (si ricordino le Epistolae et sermones di San Girolamo (D.XI.1-3), il De civitate Dei di Sant'Agostino (D.IX.1) copiato da Jacopo della Pergola e miniato forse da Crivelli, l’In Johannis Evangelium Sermones di Sant'Agostino (D.III.3) copiato da Giovanni da Epinal con miniature attribuite a Crivelli. Ultimo fondo, quello costituito dal lascito testamentario di Giovanni di Marco (medico di Novello), con circa 100 codici di medicina e scienza, tra cui un Historia Naturalis di Plinio (Francesco da Figline) (S.XXV.5) e un Etimologiae di Sant'Isidoro (X-XI sec.) (D.XXIV.1).
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