La palazzina al n. 3 di via Donizetti è detta casa dell’Arciprete perché nel 1840 fu lasciata in eredità agli arcipreti del Capitolo del Duomo. È a tre piani, con la facciata sulla via rivestita di marmo; un cortile quadrato separa il corpo di fabbrica su via Donizetti da quello verso la pianura, che è frontale rispetto a chi percorre il primo tratto di via San Giacomo e presenta verso gli spigoli laterali ariose logge a due piani con archi in cotto. La costruzione, di cui si ignora il committente, è degli anni attorno al 1520. La fronte in marmo grigio è divisa orizzontalmente da trabeazioni sostenute da lesene corinzie, che la scandiscono in tre zone: nelle due laterali, al piano di strada sono due porte ad arco; l’ingresso è in quella di sinistra; nella zona centrale è una finestra rettangolare decorata con finta prospettiva. Al primo piano, finestre ad arco corrispondono alle due porte e un’edicola con il fondo al rustico, che un tempo doveva inquadrare un affresco, corrisponde alla finestra del piano terra. Al secondo piano la parte centrale è in leggero sfondato rispetto alla linea del fronte, con una porta-finestra che ha un semplice parapetto di ferro. Gli edifici con cui il palazzetto è allineato sono posteriori, ma probabilmente la situazione spaziale della via era, al tempo della costruzione, analoga a quella di oggi. Occorre immaginare la via senza la piazzetta antistante, formata di recente; in questo modo, la finestra centrale, con la sua finta prospettiva rivela il proprio significato di accentuazione plastica della quinta urbana. Una vista frontale abbastanza distante, ora possibile, mostra nel disegno della facciata qualche scompenso di proporzione, che invece s’annulla in una vista da sotto in su per cui fu probabilmente pensata. Autore dell’edificio è ritenuto l’architetto bergamasco Pietro Isabello, un artista di notevole statura, non ancora ben conosciuto. L’eredità decorativa della cappella Colleoni, la lezione bramantesca della prospettiva pittorica sulla facciata del palazzo del Podestà veneto, il gusto veneziano per le policromie marmoree fanno di questa facciata un caso esemplare dei modi con cui in Bergamo sono state rivissute certe esperienze artistiche. L’androne ha una volta affrescata con soggetti di storia romana; il cortile lastricato in pietra non ha né portici né loggiati, ma su quattro lati una balconata sostenuta da mensoloni curvi; al secondo piano vi è un cornicione a gola, con un giro di finestrelle tonde. Porte e finestre hanno contorni di marmo. Sulla destra del cortile sono i vani delle scale che portano sia ai piani superiori, sia ai due piani sottostanti: sotto il cortile vi è un ambiente con pilastro centrale. In alcune sale è sistemato il museo diocesano, dove sono affreschi (uno trecentesco, proveniente dall’antica chiesa di San Vincenzo raffigura “una visita dei fratelli della Misericordia”), un polittico ligneo del Quattrocento, quadri (di G. B. Moroni, G. P. Cavagna, C. Procaccini, C. Ceresa; F. Cappella, ecc.), sculture (alcune di A. Fantoni e bottega), ex voto, vetrine con “paci”, calici e altri preziosi oggetti di culto, tre medaglie e un disegno di G. Manzù. Anche in questa sede, che fu eretta verso il 1520 dall’architetto bergamasco Pietro Isabello e passò poi ai Conti Fogaccia di Clusone per acquisto fatto nel 1675 e solo versa la metà dello scorso secolo in proprietà dell’arciprete del Duomo, come è tuttora, esistono due corpi di fabbrica uno verso via Donizetti e uno verso sud con intermedio cortile cinquecentesco. Nel fabbricato interno rimangono conservate su pareti di sale tre curiosi tratti affrescati raffiguranti tre composizioni paesistiche, certamente di fantasia con addensati elementi di case, chiese, torri, castelli di vario tipo due con dossi collinari e ripiani di verde con fiori e cespugli ed uno con una muraglia recingente il gruppo delle case e prospiciente su una zona d’acqua formante angolo di lago con barche. La fattura è presumibilmente della seconda metà del Settecento nel periodo perciò della proprietà Fogaccia. Ancora di questa famiglia è il complesso decorativo di alcuni decenni dopo degli ambienti di questa parte di casa, con due salette a volta, una semitonda, una a crociera: la prima a sedici spicchi dipinti nella volta ed una cornice d’imposta con fregio, denominato nel frasario tecnico, di “corridietro” e con quattro raccordi angolari racchiudenti triangoli mistilinei di foglie e fiori, la seconda su pianta rettangolare con motivi ornamentali neoclassici svolti sopra la cornice di imposta con elementi di erbe, rami, fiori, uccelli e nel centro dei quattro lati il motivo ripetuto quattro volte di un tempietto a colonnette e festoni con un alto vaso a più piani raffigurante una fontana. In un altro locale è il soffitto a vari toni con ampie riquadrature geometriche a rombo centrale e tre riquadri triangolari per lato racchiudenti dei tondi di mazzi di fiori con draghi alati negli angoli. Questo locale ha carattere ugualmente neoclassico, ma alquanto di epoca più tarda. La parte di fabbrica che sta fra il cortile interno e la Via Donizetti ha parecchi locali che nella parte decorativa pittorica ha netti caratteri neoclassici perché presumibilmente fra il primo ed il secondo decennio dell’Ottocento. La presenza poi di tre riquadri decorativi a figure in chiaroscuro evocanti episodi di vita antica romana, del tutto affini a quelli che decorano gli spazi rettangolari sopra le finestre del salone del Conservatorio Musicale, evocano ancora il nome del nostro maggiore artista del tempo: Vincenzo Bonomini. Tali riquadri fanno parte delle pareti di una sala che è particolarmente di effetto grandioso, anche per l’architettura dipinta che anima il complesso del locale. Appaiono infatti motivi di angolo di colonne corinzie abbinate profilate contro il fondo di cielo chiaro che reggono una trabeazione per tutta la sala a finte mensole con sopra un fregio denso di attributi bellici, un secondo fregio a lunette col ripetuto motivo di aquile sempre a fondo scuro alternate a spazi mistilinei con teste di putto. Più sopra nel soffitto corre un motivo a riquadri di lacunari racchiudenti il tipico rosone di architettura romana. Due altri attinenti soffitti di sale minori completano l’interesse di quella abitazione: il primo su superficie curva con la parte centrale rettangolare con motivo di vani esagonali incassati contornati da fasce formanti vani a quadretti nel loro incontro e una larga fascia di perimetro che appoggia su quattro arcate ribassate che con un motivo di festoni a frangia drappeggianti racchiudono graziose figure di putti seduti e sui due lati maggiori nel centro due scene di piccole figure particolarmente attraenti per freschezza di tocco. Il secondo soffitto porta in centro del locale un tondo in chiaroscuro finemente dipinto, con una faretra di frecce e una fiaccola obliquamente disposte e con due aquile a becco accostato, rami di alloro ed una fascia che lega trasversalmente la composizione decorativa. Attorno al tondo ornamentale corrono fasce e sagome che formano, incrociandosi fra loro, spazi vari geometrici decorati con girali a rami di foglie e fiori in un piacevole scomparto di gradita armonia di toni, elemento costante che informò queste neoclassiche composizioni. Nella facciata marmorea del primo Cinquecento, che imprime nella attraente Via Donizetti in Bergamo Alta, una nota di fine preziosità per la nobiltà architettonica di forme rinascimentali e per lo squisito gusto delle parti decorative, spicca il portale di questa casa denominata dell’Arciprete. La pianta dell’antico edificio che internamente ha un quadrato cortiletto disposto lateralmente così da non consentire un accesso centrale, vincolò il costruttore a collocare il portale sull’estremo sinistro della facciata. L’architetto dovette così per simmetria creare un’analoga apertura sull’estremo di destra, mutata poi in luce di finestra. Superiormente egli dispose due altri piani, separandoli col ripetuto motivo delle trabeazioni e frazionando verticalmente la fronte della casa con i risalti delle lesene. Non è dato conoscere il nome della famiglia patrizia che commise l’opera all’artista concittadino, solo essendo noto che nei locali interni dipinse affreschi, oggi perduti, Giovanni Cariani, pittore fra i maggiori nella Bergamo del tempo. Solo nel 1675, per un dato d’archivio, si ha notizia che Vittorio della famiglia Fogaccia clusonese acquistò la casa da Francesco Arici, tenendola fino allo scorso secolo quando venne in possesso, come è tuttora, dell’Arciprete del Duomo. Pur non avendosi documenti che confermino il nome dell’architetto esecutore, pure una lontana tradizione attribuisce l’opera al bergamasco Pietro Isabello detto Abano, nato verso il 1480 e morto nel 1550. Gli elementi compositivi, i profili delle trabeazioni, le proporzioni delle membrature richiamano infatti opere dello stesso architetto, quali la chiesa e il chiostrino di San Benedetto, il palazzo Grataroli di Via Pignolo, l’abside di San Pietro in Alzano. Nel riquadro rettangolare di pianterreno, racchiuso fra le lesene appoggiate sui profili dello zoccolo di base e di altezza lievemente superiore al doppio della larghezza, secondo le norme in uso nel primo Cinquecento (l’opera si può assegnare ad una data intorno al 1520), l’architetto inscrisse l’arcata del portale sui capitelli sorretti dalle lesene minori sottostanti. Queste lesene, differentemente dalle lisce lesene di edifici coevi cittadini, hanno un visibile richiamo al gusto dell’architettura veneziana del tempo per il motivo del tondo posto a metà altezza e i due semitondi agli estremi in basso verso la base e in alto verso il capitello. Nello spazio interposto fra la sagoma dell’arcata e la linea inferiore della trabeazione venne pure inserito l’elemento decorativo del tondo, con fregio contornato da sagoma, sempre in analogia al carattere dell’edilizia veneziana. Tutto il portale come l’intera faccia non ha varietà di tonalità policrome. In conformità alle consuetudini cittadine delle fronti delle case, nelle quali non era invalso l’uso d’impiego di marmi vari (anche dopo l’esempio di alcuni decenni prima quando l’Amadeo aveva nella Cappella Colleoni dato saggio di una esuberante, per non dire eccessiva policromia), anche in quest’opera il marmo impiegato fu di una sola provenienza: quella delle cave, ora abbandonate, della valletta trasversale al Serio a monte del paese di Nembro, di un tono grigio venato ma di compatta struttura che consentiva profili e sagomature sottili e perfino la squisita finezza dell’intaglio decorativo che si ammira nei contorni ornatissimi della nota finestra contigua, esempio mirabile di perfetta fattura tuttora in ottimo stato di conservazione.
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